Parlez-moi de la pluie

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Si-       Mi-
Che delizia la pioggia! che orrore il sereno!
             La7
Non c'è cosa più triste dell'arcobaleno.
Re
Il cielo blu mi fa star male,
              Fa#
perché il più grande amore che mai mi fu dato
        Si-                     Do#7             Fa#     Si-
io lo devo ad un cielo cupo ed imbronciato:
            Mi-            Sol Fa# Si-
ad un furioso temporale.

Una notte d'autunno, sopra la mia magione,
una folgore, con terribile esplosione
s'era venuta a scaricare.
Giù dal letto schizzata, ancora semisvestita,
la mia bella vicina, tremante ed impaurita,
all'uscio mio venne a bussare:

"Sono sola ho paura! Aprite vi prego,
mio marito è lontano a causa del suo impiego
(o direi meglio del suo guaio),
che lo obbliga a uscire sotto l'acqua sferzante
per la buona ragione che fa il rappresentante
dei parafulmini d'acciaio".

Lode a Benjamin Franklin per la bella invenzione!
Abbracciandola a me le diedi protezione,
e poi... l'amore fece il resto.
Tu, di punte di acciaio, venditore provetto,
Non pensasti a piazzarne neanche una sul tuo tetto!
Error non fu mai più funesto.

Quando Pluvio andò oltre nel suo vagabondaggio
la mia bella, ripreso un poco di coraggio,
tornò nel proprio appartamento;
ad attender lo sposo con coperte e cordiale,
e alle prossime piogge, a un nuovo temporale,
già ci fissammo appuntamento.

Con un'ansia crescente io mi misi da allora
a scrutare fremente i cieli ad ogni ora,
giorno e notte, notte e giorno;
a spiar nembi e cirri, sempre più preoccupato,
a fare gli occhi dolci anche a un cumulostrato,
ma lei non fece più ritorno.

Seppi poi che il marito, in quella notte famosa,
parafulmini aveva seminato a iosa;
e milionario divenuto,
se l'era portata in quei luoghi laggiù,
dove non piove mai, e il cielo è sempre blu,
laddove il tuono è sconosciuto.

Ma voglia Dio che il mio pianto a tamburo battente
la raggiunga e le parli del tempo inclemente
che ci portò su in paradiso;
e le dica che un fulmine un po' mascalzone
m'ha lasciato nel cuore una piccola incisione
con i contorni del suo viso.

A questo punto dell'agosto, non so voi, ma io ho solo voglia di cieli grigi e nuvole radenti su pianure verdi e gialle, di Francia insomma. Cerco di farmela passare su internet; per esempio ho trovato il Pornografo, che non è quello che pensate voi, bensì un sito che raccoglie le versioni di Brassens cantabili in italiano. Sono tutte un po' infedeli, come è giusto che sia. Questa per esempio è più o meno L'orage tradotta da Nanni Svampa ed Enrico Médail. Questo, invece, è un serio tentativo di far piovere. Il juke-box finisce qui, l'estate non ci metterà ancora molto; spero che vi abbia lasciato qualche bella canzone.
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Il DJ sta spaccando la consolle

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“Rimini che non gli frega niente
della gente dentro ai bar il ventinove
di agosto, che
piove
sempre

e scritte luminose laggiù al Luna Park
che smanie e desideri da bambini
le ombre che si allungano
fino a toccare il mare riniziando poi a tremare
il vento soffia e qui non cambia niente, ma

il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
sbatti un po' le mani

il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
quindi, sbatti un po' le mani”.

Fitness pump, Rimini (da Riviere, 2006).

Sono state scritte, negli ultimi 10 anni in Italia, tantissime belle canzoni, per lo più da semisconosciuti che non lo facevano di mestiere. Le hanno scritte per hobby, sono stati un po' in giro nei locali e poi hanno messo su famiglia, o vinto una borsa a Oxbridge, o si sono semplicemente rotti i coglioni, oppure no, oppure sono ancora lì che autoproducono i loro cd, curano il loro myspace, caricano gli strumenti sulla fiat multipla e si fanno centinaia di chilometri per suonare al festival di un tizio che ha un casolare col cortile. Francamente non so nemmeno se esistano ancora, questi Fitness Pump.

Di solito quando succedono questa cose si parla di “musica indipendente”, di “underground”, e nel mondo reale si dà per scontato che siano loro i primi a non voler uscire davvero dalla loro nicchia confortevole, per misurarsi col mercato vero, col professionismo, con le necessità e i gusti del grande pubblico. Sono stronzate.

Davvero, stronzate, non c'è altra parola. Ditemi dov'è la spocchia in un pezzo come questo. Ditemi il motivo per cui le radio “commerciali” non avrebbero dovuto programmarla fino alla noia, una manciata di estati fa. Ma anche oggi. Ditemi per quale motivo Rimini dei Fitness Pump non dovrebbe piacere al mio fornaio, alla tua estetista, a te che andavi ai rave, a tuo fratello che ci va adesso, al commercialista quarantenne che venerdì si fa quattro ore di autostrada per ballare ancora sulla spiaggia come un cretino: ditemi perché non gli sarebbe piaciuto ascoltarla alle cinque del mattino mentre esce dall'autogrill, anche su isoradio. È una canzone minimale, orecchiabile, che manovra con semplicità sensazioni che sono moneta corrente. Poteva diventare la piccola Estate-Sta-Finendo degli anni Zero, ma i radiofonici non se ne sono accorti. Per via che c'è la crisi, le case discografiche non si sentono di rischiare (e quindi puntano sui Finley, certo), eccetera. Oppure perché dal '96 hanno i padiglioni auricolari completamente ostruiti da una strana cricca bianca che si è cristallizzata, non viene più via.
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Lo voglio perché è mio

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Non so bene come andò in quell'agosto; dovevo essere tornato dal mare o dai monti prima di tutti gli altri, insomma, ero solo, mollato, senza risorse. Chiuse le biblioteche, i circoli, i negozi, i fornai, non ancora aperti i festival, neanche un prete per chiacchierar. Anche le radio erano chiuse, riprogrammavano i nastroni a intervalli regolari, ti facevano sentire l'ultimo uomo sulla terra. Una di quelle situazioni in cui persino i portatori sani di solitudine, come me, si appendono al cellulare. Salvo che i cellulari ancora non c'erano. Insomma dovevo essere davvero disperato, perché mi cercai un lavoretto.

Io non so perché in quell'anno si ritrovarono a distribuire le Pagine Utili in agosto. Evidentemente c'era stato un ritardo nella produzione, ma non aveva senso lo stesso, a quel punto è meglio aspettare settembre, il rientro. Conosco le abitudini. Capivo che c'era qualcosa che non andava, ma ero tramortito dal sole, dalla solitudine, e nello scantinato del caporale c'era un enorme planisfero politico, io non riesco a concentrarmi sui miei problemi da piccolo umano quando mi mettete davanti a un planisfero politico, uno sguardo più puro sul mondo, così gli dissi sì, conosco la Bassa, vi posso coprire un comune, ma piccolo, facciamo... Camposanto.

Camposanto, adesso io non voglio polemizzare, ci ho anche degli amici, però c'è un motivo se tra tutti i nomi al mondo gli è rimasto appiccicato Camposanto. Camposanto, secondo i tabulati che mi consegnarono, faceva tremila abitanti: meno di mille pezzi da distribuire. Ma era un calcolo fatto d'inverno, forse nei ruggenti anni Ottanta. Camposanto, quando ci arrivai in quell'agosto, il baule carico di pagine utili intonse, era la cosa più simile al villaggio del west quando si esaurisce la miniera. I cespugli rotolanti, avete presente? Ne ho visti. Un miraggio, probabilmente, ma ciò non toglie.

Il mestiere consisteva nel distribuire questi ingombranti parallelepipedi utili di carta, che se fossero stati realizzati in ghisa non avrebbero pesato meno, agli abitanti. Qualcuno in seguito avrebbe telefonato a un campione di questi abitanti, per verificare se il lavoro era stato fatto. Il problema era che essi abitanti avevano visibilmente abbandonato Camposanto al suo omonimo destino. L'età media della popolazione residua si aggirava intorno ai settanta. Molte casette anni '50, con la scala esterna e il garage interrato, risultavano sprangate. I cinque nativi che incrociai il primo giorno mi recitarono più o meno la stessa scena:

ABITANTE DEL CAMPOSANTO: Guardi che è inutile che suona a quelli lì. Non ci abitano mica più.
IO: Mi scusi, sto distribuendo gli elenchi telefonici, io...
AdC: Gli elenchi in agosto? Ma a noi li han già dati.
IO: Sì, ma questi sono un po' diversi... comunque io li lascio qui, sul davanzale, così quando ritornano...
AdC: Ma guardi che lì ormai ci abitava solo la Pina, ma poi si è ammalata... è da tanto che è in ospedale... lasci perdere...

Ogni volta che nella vita mi hanno detto di investire sul mattone, che era una sicurezza e non sarebbe mai sceso, mi torna in mente la situazione immobiliare di Camposanto. La gente aveva tirato giù le tapparelle ed era andata a morire, e la casa stava lì, ammuffendo, nel nulla. Chi se la sarebbe presa. E a che prezzo. Insomma, lasciatemi perdere. Non voglio comperare (né essere comprato).

Al termine del primo giorno potevo già constatare il fallimento: solo un elenco telefonico su quattro era stato consegnato a persone apparentemente viventi. Gli altri erano stati appoggiati sui davanzali, davanti alle porte, il mattone di carta essendo troppo ingombrante per la cassetta della posta. Inoltre i dati del mio stradario risultavano completamente sballati, perché proprio in quei mesi Camposanto aveva preso una di quelle misure impopolari che si prendono una volta ogni cinquant'anni, ovvero cambiare il nome e la numerazione delle strade. Probabilmente per dar fastidio a me. Cioè, sul serio, cominciavo a pensare che Camposanto fosse un fondale realizzato per farmi impazzire. 24mila pensieri al secondo fruiscono, inarrestabili.

Il giorno dopo mi recai a Modena per il secondo carico di parallelepipedi utili. Avevo il baule vuoto, eppure all'altezza di Albareto cominciai a sentire un tonfo sordo, come un ostaggio che bussava. Era l'albero di distribuzione del motore, come seppi poi, che si era trinciato di netto, e se muoveva ancora pistoni nei cilindri era solo per sbaglio, come quegli animaletti decapitati che ancora respirano. La macchina si fermò in Villa d'Oro, di botto.

Mi feci prestare quella dei miei, con l'aria condizionata. Comodo, ma come dire: poca soddisfazione. Il secondo giorno mi addentrai nella Madonna del Bosco, la zona più selvaggia della bassa modenese. Le strade non erano ancora asfaltate. Lungo la Panaria scoprii tutta una serie di vecchie fattorie occupate da neri e magrebini. Loro non erano segnati nei tabulati, ma gli elenchi glieli davo lo stesso. A quel punto li avrei dati anche i marziani, pur di farla finita. Alimentando voglie e necessità.

A un certo punto tornai nel ventre di Camposanto, e un'osservazione mi sollevò l'umore: gran parte delle pagine utili che avevo 'distribuito' il giorno prima erano ancora sui davanzali, nelle fessure dei cancelli. Certo, e dove avrebbero dovuto essere? Nessuno era così sciocco da portarseli via. Sarebbero rimasti lì fino a settembre, e con un po' di fortuna molti abitanti del Camposanto le avrebbero trovate, avrebbero testimoniato che il lavoro era stato fatto. Bastava solo che non piovesse. Del resto il cielo era limpido.

Quel pomeriggio grandinò. In pochi minuti l'acqua inondò i marciapiedi, decine di pagine bianche andarono a intasare i tombini. La cosa positiva è che Antenna uno aveva ripreso la programmazione. Stavano scartando le novità, addirittura. Una lunga lagna di quei tizi che avevano avuto successo anni prima e poi si erano persi di vista, i Radiohead. E un pezzo dei CSI un po' più tirato del solito.



Proprio in quei giorni qualcuno che era rimasto negli uffici compilò i dati di vendita e scoprì qualcosa che aveva dell'incredibile: il nuovissimo disco dei CSI era primo in classifica. Fu una svolta storica; ma adesso, ripensandoci, chi accidenti se li andava a comprare i dischi a metà agosto? Bisognava essere persone strane, intrappolate in situazioni assurde, attratti, fortemente attratti. Civilizzati, sì, civilizzati.

Ma voi volete sapere se alla fine mi pagarono; se irruppi nello scantinato gridando "Voglio ciò che mi spetta". No, non lo feci, e sì. Qualcosa mi diedero. Nulla che valesse un albero di distribuzione, ovviamente.
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Burning bright

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Oggi poteva anche essere la volta di Coltrane che interpreta Gershwin, ma mi sono reso conto che l'estate sta finendo, il juke box è agli sgoccioli, e non è ancora uscito un vero pezzo da autoscontro. Questo è semplicemente inverosimile, quindi tante scuse Johncoltrane, ma qui scatta il momento Baby Records. Siete pronti?

Io non so se abbia ragione Jo Squillo quando dice che Lady Gaga le ha copiato la frangetta. Ho il terribile sospetto che le acconciature siano un numero finito, così come le melodie, e che le popstar abbiano finito entrambe da un pezzo. Però è indiscutibile che la Germanotta debba molto all'europop Ottanta, e forse questo si capisce meglio in America che da noi, dove certi ritornelli cacchi (catchy) non sono mai veramente scomparsi dall'orizzonte radio. Perché insomma, al netto delle indiscutibili trovate di scena (non scorderò mai la pelliccia di rane Kermit), musicalmente cosa può dire a un italiano della mia generazione Lady Gaga? Niente che io non abbia già ascoltato ruotando intorno a un calcinculo al Festival dell'Avanti di San Prospero nel 1984. La situazione cambia già se siamo negli States: un mio coetaneo americano gravitante intorno a un analogo calcinculo, probabilmente ci ascoltava i Boston o i Foreigner, e questo gli ha impedito di immunizzarsi contro i ritornelli cacchi. Quindi non c'è da stupirsi se al primo po-po-po-po o al primo wa-wa-wa o Ale-ale-ale cascano tutti come mosche. È come se non si fossero fatti il vaiolo. Cioè, il vaiolo, parliamone: Tom Hooker. Den Harrow (che era sempre Tom Hooker). Spagna. Sabrina Salerno. Tracy Spencer. Gli Industry. Gli Scotch. Noi siamo sopravvissuti a tutto questo, cosa vuoi che ci potesse fare il vaiolo.

Ne portiamo i segni, comunque. Dobbiamo provarne nostalgia? È inevitabile, e ribadisco: gli amori non si scelgono. Se da bambino ti è piaciuta Tarzan Boy non è colpa di nessuno (o al limite di Claudio Cecchetto, che ha responsabilità ben più gravi). Tutto quello che ti si chiede è un po' di contegno in società. Quindi se qualcun altro la mette su a una festa puoi ballarla, purché goffamente e con autoironia, e deve comunque essere una festa di coetanei: i figli non dovrebbero nemmeno sospettare quello che succedeva intorno ai nostri autoscontri. Noi non commetteremo gli errori dei nostri genitori, non infliggeremo i vari bobbysolo o litteltoni a innocenti che non se li meritano...

Il guaio, però, è che in questo modo anche loro rischiano di cadere come mosche alla prima tizia stravagante che azzecca un po-po-po o un wa-wa-wa. E che male c'è?

C'è che... come faccio a dirlo... oh, vabbe', me ne prendo le responsabilità.

C'è che forse Baltimora era meglio.

Potrebbe essere una mia valutazione errata, viziata da quel famoso effetto doppler del giudizio estetico, lo spostamento verso il rosa di tutto quello che ci scivola all'indietro, la nostalgia insomma.

Però potrei anche aver ragione. Insomma, ritengo che ci siano parametri oggettivi per affermare che l'oh-oh-oh di Tarzan Boy suoni meglio del wa-wa-wa 2010. C'è una freschezza che nelle versioni surgelate si è perse. C'è la sporcizia degli strumenti ancora un po' analogici, ingredienti non ancora ben dosati: ancora qualche anno e tutto sarebbe quagliato perfettamente in quella confezione di plastica che ci affligge da vent'anni. E un meraviglioso senso di dissipazione: quelli che montavano i “progetti musicali” come Baltimora non vedevano più in là di un'estate o due, e sapevano di dover sparare tutte le cartucce alla svelta. Non c'era nessun olimpo pop da scalare, Madonna era una sciamannata e Michael Jackson su un altro pianeta, il successo in questo tipo di cose era vissuto come un assalto alla diligenza. Piazzi tre singoli, te li fai infilare in qualche compilescion, e scompari col malloppo. Poi, se le cose andavano bene ti trovavi un altro mestiere (Hooker si diede alla fotografia) e magari dopo vent'anni t'invitano a uno show per nostalgici. Se invece andavano male... Jimmy McShane ci ha lasciato nel 1995. È lui che cantava Tarzan boy.



Ora provate ad ascoltarla come se non foste mai saliti su un autoscontro in vita vostra, come se fosse la prima volta. Lo so che è difficile. Provate a fare a meno dei ricordi, del sapore del Magic Cola che cola sulla pelle e s'impiastriccia col Coppertone. Fate finta che sia il tormentone 2010. Che ne pensate? Io penso: non male, ma che spreco. Va bene il ritornello catchy, ma qui è catchy anche la strofa, l'inciso e il mini-stacchetto di organetto roland. Ci si potevano scrivere tre successi e mezzo, con la roba che hanno messo in Tarzan Boy. Uno che vuole imbastire una carriera, uno che ha una mentalità industriale, con le idee di Tarzan Boy oggi ci annacqua quattro singoli; ci vende suonerie per due anni. C'è che oggi sappiamo che le melodie cacchie sono un numero finito, come le frangette, e bisogna economizzare. E negli anni '80 non lo sapevano? Lo sapevano, ma avevano una fretta dannata di crescere e fare altro, diventare fotografi o al massimo morire. A rivederlo Jimmy McShane sembra un replicante alla Rutger Hauer, uno che a vivere si deve sbrigare. The light that burns twice as bright burns for half as long.
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And if you think it obsolete

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Noi ogni tanto sentiamo parlare di qualche vecchio disco; da come ne parlano le persone in cui riponiamo la nostra fiducia, capiamo che si tratta di un disco che potremmo amare. E allora cosa aspettiamo a procurarcelo? Il fatto è che abbiamo il triste sospetto che sia troppo tardi, per innamorarsi di una dozzina di canzoni. Una cosa puerile in fin dei conti, e noi cominciamo ad avere un'età. Certe canzoni dovevamo incontrarle per caso quando avevamo ancora il cuore giovane, come sconosciute al campeggio: farci l'amore una notte e poi magari non scordarcele più. Se non è successo, è inutile recriminare: abbiamo avuto altre canzoni, poteva andarci molto peggio. Per esempio, avere 16 anni oggi e doverseli gestire coi ritornelli di Rihanna...



Forever Changes non è un disco che si incontra per caso. Bisogna andarselo a cercare, e quindi tanto vale programmare l'esperienza: tirarne fuori tutto il meglio che si può ricavare da un incontro tra adulti. Certo, non sarà l'amore dei nostri sedici anni, ma ci si può imbastire comunque un rapporto solido, basato sulla fiducia e il rispetto reciproco. Io consiglio di aspettare l'estate (la prossima, perché questa ormai è andata: fatevi un appunto per il giugno 2011). Raccomando di non nutrire aspettative eccessive, perché vi è già successo di portarvi in casa questo o quell'osannato capolavoro e scoprire che in fin dei conti era solo l'ennesima collanina di canzonette vintage. Ecco, prendetela così: Forever Changes è una deliziosa collanina di canzonette vintage, istoriata con fregi spagnoleggianti, quasi fintoaztechi. Un regalo della cugina avventuriera che ha passato un fine settimana a Tijuana. Se poi vi capiterà di innamorarvene sul serio, tanto di guadagnato. In caso contrario, avrete pur sempre una collanina buffa da tirare fuori nei giorni d'estate.

Consiglio di aspettare il termine della siesta pomeridiana, quando il sudore vi appiccica i pensieri. Ascoltatelo svagati, in una stanza rivolta a occidente, pensando ad altro e facendo altro, mode repeat all, senza preoccuparsi di distinguere i ritornelli. Può darsi che vi cresca dentro, così come può darsi di no. Dategli comunque un po' di fiducia all'inizio: riconoscete che è un lavoro fatto con grande amore e un notevole sprezzo del pericolo, in anni in cui il rock non si sapeva ancora esattamente che direzione avrebbe preso (avrebbe preso la direzione opposta, poveri Love). Lasciatelo aperto fino a tutto il tardo pomeriggio, che s'impregni dell'afa del giorno e della luce del tramonto. Ripetete l'applicazione più volte nel corso dell'estate, e a fine agosto richiudete ermeticamente fino al giugno successivo.

Se tutto va come deve andare, sarete riusciti a insufflare un po' della vostra personale melanconia estiva in Forever Changes: che ve la restituirà fedelmente, ogni volta che gliene chiederete. Se non funziona, che vi posso dire. Ognuno s'innamora di quel che può (no, l'amore non si merita: ti capita e basta). Magari a voi è toccata Rihanna. Inutile recriminare.
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Un giorno sfondo

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Diceva d'essere un attore,
e anche un po' fotografo;
la sua vita era una commedia,
perciò era pure un comico.
Avrebbe fatto i milioni,
ormai stavano arrivando...
e nel frattempo cazzeggiava.

Si guardò indietro nello specchio:
tutti quegli anni, formidabili.
Posò lo stuzzicadenti
e rise un po' dei cazzi suoi.
Vedeva l'odio per sé stesso
già inciso nell'autoritratto
che avrebbero esposto a Brera
di fianco a un Tintoretto,
ma era in ritardo con l'affitto.

Spiegava: sono un musicista,
che ha questa ambizione:
che tutti possano ascoltare
il mio ritmo interiore...
Nel frattempo stava immobile
e diceva così:

È una questione di tempo,
vedrai che arriva il mio momento.
Io credo ancora nel mio sogno:
sto per spaccare il culo al mondo,
sto per spaccare il culo al mondo.

Non negava di esser bello,
aveva fatto anche il modello,
ma non mandava giù l'idea
di sfilare in mutande
(rendeva più in Autunno-Inverno).

E lavorava a un portale(*)
che avrebbe aperto a Natale.
Faceva tutto anche da casa
con il suo cellulare,
finché è rimasto senza credito.

Un gran lavoratore,
che non riusciva a stare fermo:
cercava ancora il suo Dio,
senza più credere all'inferno
(ma andava ancora a confessarsi).

Un uomo molto indipendente,
ma con qualche dipendenza;
un vero uomo libero,
(dormiva in case occupate);
aspettava un bonifico,
che ormai stava arrivando,
e nel frattempo cazzeggiando
mi spiegava così:

È una questione di tempo,
ma arriverà il mio momento.
Io ci credo un giorno sfondo,
spaccherò il culo al mondo,
spaccherò il culo al mondo...

Fatti spiegare il mio sistema,
mentre mi offri la cena,
ecco vedi,

Io sono un attore,
e anche un po' un fotografo;
poi la mia vita è una commedia,
il che fa di me un comico.
Vedrai farò i milioni,
vedrai vedrai che arrivano...

(*) Era il 2000, dopotutto. Succedeva persino a me.
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The Happy Birth of You (& me)

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Le Man Avec Les Lunettes è il nome di un gruppo che gode di una certa popolarità in Val Trompia, Svezia, Giappone, e in piazza Rodolfo Pio a Carpi. All'inizio era un duo, poi è diventata una piccola orchestra che suona l'indiepop meno fracassone e più raffinato che possiate sentire in giro. Il loro ultimo album, intitolato più o meno Plaskaplaskabombelibom, per un paio d'anni è stato il nostro privato Sgt. Pepper: ci ha accompagnato in tutti i luoghi e soprattutto in tutti i laghi, senza prendere mai polvere. Mezz'ora di scandalosa armonia. Però una mezz'ora passa in fretta, e in due anni ne sono passate davvero tante, e insomma quando arriva un disco nuovo?

Nel frattempo, voi che non li conoscete potete ascoltarvelo tutto in streaming, e un po' v'invidio. In giro per la rete ci sono decine di video, alcuni molto professionali, che tolgono ogni dubbio sulle qualità artistiche e le competenze tecniche dei componenti del progetto. In un qualche modo però mi sembra ineluttabile mostrarvi questo, dove la resa acustica non è un granché, ma si vede un angolino di Mattatoio e ci si diverte molto. Forse a causa di uno scambio di chitarre, o semplicemente perché suonare nei Le Man è divertente. Questo è il migliore giorno in cui vivere. Buon compleanno.

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Cheap day return

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Ian Anderson non è per tutti. Lo so, lo accetto.
C'è un sacco di gente che odia il progressive. È roba pretenziosa, la rivincita dei secchioni delle belle arti sui proletari del rock. Tutto prima o poi è tornato di moda, ma il prog no – troppo pesante per qualsiasi rigurgito di hype. Il prog è vecchio, e se lo ascolti sei patetico. Lo so, lo accetto.
C'è un po' di gente che ama il progressive, ma non sopporta comunque i Jethro Tull, che non erano veramente prog. Hard rock col flauto, questo facevano. Lo fanno ancora, se è per questo, e o li ami o li odi. In realtà no. Ti possono anche lasciare indifferenti.

Ma Cheap day return la devi ascoltare. Dura un minuto. Dove lo trovi un pezzo orchestrale di un minuto? Quelli erano tempi in cui bisognava dimostrare di aver studiato solfeggio, sotto i cinque si scendeva raramente. Cheap day return è appena uno schizzo, la storia di una visita al padre in casa di riposo. Ian abbozza un sospetto sulla badante, ma poi lei gli chiede un autografo, che risate. C'è una chitarra acustica che dialoga coi violini, e sembra la cosa più naturale del mondo. E no che non lo è. Cheap day return è un piccolo gioiello di semplice ma straordinaria fattura, se fossi stato un critico musicale in quegli anni avrei scritto così, incastonato nel primo lato di Aqualung, che comprai ad occhi chiusi la mattina in cui scoprii che non mi avevano rimandato. Mi meritavo dunque un disco a prezzo intero, anche se uscito più di vent'anni prima. L'anacronismo in sé non era un problema, i miei compagni compravano Pink Floyd e Genesis senza pudore. Ma io ero affascinato ancor più impudicamente da certi dischi che suonavano ancora più antichi di quel che erano; come la voce di Robert Plant che a volte sembra riverberare direttamente sulle pietre di Stonehenge, o come i Jethro Tull che avevano questa immagine medioevale già allora imbarazzante, ma a quel tempo me ne fregavo alla grande di quello che potevate pensare di me. La migliore colonna sonora per leggersi il Signore degli anelli, come feci quell'estate; e misi giù anche il pavimento del terrazzo, ma non venne bene. Poi lunghi e tortuosi giri in bicicletta, durante i quali pioppi e cipressi di Albareto impararono a memoria il primo lato di Aqualung. E se ci tornassi, uno di questi pomeriggi, senza queste stupide cuffiette, so che me lo canterebbero ancora, solco dopo solco, dal riff iniziale alle risate di chiusura. Ma fa troppo caldo.

Non ci giro più molto in bicicletta. Il Signore degli Anelli non lo tengo neanche in casa. Il pavimento del terrazzo è stato rifatto da personale competente, e comunque ora è un terrazzo di casa d'altri. La paura di essere rimandato a settembre in qualcosa è una sensazione che non riesco più nemmeno a evocare. Sono insomma un'altra persona, fatta di cellule in gran parte generate nei vent'anni successivi. Se m'incontrassi non mi capirei, anzi mi prenderei a ceffoni. Ma per fortuna non mi può succedere. Tranne una volta all'anno, quando ascolto Aqualung. Neanche tutto. Il primo lato. Ed è come se il ragazzo venisse a trovarmi all'ospizio, ciao vecchio, come va, la nurse ti tratta bene? On Preston platform, do you hear shoe shuffle dance?


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E versa, versa

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Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, quando ci entri davvero, ti sembra di rinvenire sotto le strutture pop sapientemente disegnate da Don Was tutto un mondo di spiritualità e mistero, come una moschea mozarabica dissimulata sotto volute gotiche o barocche. Puoi anche prendere Serbi Serbi per il grido del muezzin che ti richiama alla preghiera del crepuscolo. Se non conosci le parole.



Quando leggi le parole in traduzione, scopri che Khaled è infelice per amore – fin qui ci potrebbe anche stare – e quindi si sta ubriacando. La parola alcohol è incastrata come un brillante pagano in una ka'aba di gorgheggi sacri, e Serbi Serbi forse significa “Versa versa”. Altro che mezzuin. Questo è ubriaco perso, e la sua preghiera è l'equivalente algerino di “si son cioc purtev'm a ca' su 'na carriola”. Uno ci può anche restare male.

Poi però, se uno ci riflette bene: cosa c'è di più rock'n'roll di cantare pene per amore alcoliche, mentre il Fronte Islamico di Salvezza prende il potere? Alcuni colleghi di Khaled morirono ammazzati per non aver fatto altro: cantare di amorazzi e bevute. Una cosa molto banale qui da noi, roba da cospiratori in Algeria. Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, anche l'alcol diventa qualcosa per cui lottare, qualcosa di sacro.
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We are billion year old carbon

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Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.

Ma non ci ha creduto a lungo. Due anni dopo, all'isola di Wight, un fricchettone sale sul palco e la interrompe proprio mentre canta We are stardust. Il manager lo prende a calci – il pubblico fischia Joni. Joni chiede il rispetto per l'artista, cioè per sé stessa. Non ci si bagna più nello stesso fango del pubblico, non gli si insegnano più i ritornelli. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. La versione di Matthews scala le classifiche nello stesso periodo.

La distanza tra le versioni di CYSN e della Mitchell è di pochi mesi. Eppure Matthews ha saputo metterci qualcosa che interpreti più conosciuti di lui non avevano ancora trovato. La pedal steel, direte voi. Bravi. In realtà io intendevo la nostalgia. La Mitchell non aveva nostalgia per Woodstock; solo un po' di rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Iain Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze. In quegli anni le fotografie ingiallivano in fretta, le speranze duravano un paio d'estati e poi finivano, e anche le canzoni migliori dopo venti mesi erano roba vecchia. D'altro canto nascevano continuamente nuove speranze e nuove canzoni, per cui la nostalgia restava un prodotto di nicchia.

Oggi tutto quel passato è stato surgelato, per la comodità degli utenti: quando ne vuoi un pezzo lo scongeli e lo consumi in pochi minuti. Così ogni estate ci si mette a parlare di Woodstock, il grande evento che ha cambiato la storia della musica eccetera. Anche la nostalgia sa un po' di precotto. Del resto è tutta gente che a Woodstock non c'era, non era nata o ascoltava Gianni Morandi. Per quelli che c'erano passati, Woodstock era probabilmente roba vecchia già nel 1970. Ne sfogliavano le foto, e cominciavano a non riconoscersi più. Siamo polvere. Di stelle, ma pur sempre polvere.
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Trashmen didn't get my trash today

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Spike Lee ha diretto alcuni tra i film più brutti e più belli che ho visto. A volte immagino che abbia un gemello cattivo, che lo odia e vuole rovinargli la reputazione, mettendo il nome di S. L. su quintali di pellicola senza capo o coda, come Miracolo a Sant'Anna o Bamboozled. In realtà Spike Lee ha un fratello e una sorella, che a un certo punto volevano scrivere un film sulla loro infanzia brooklynese. Fecero leggere la sceneggiatura a Spike, che glielo comprò; tolse le parti di sesso tra adolescenti, e realizzò Crooklyn. Non è senz'altro tra i film più brutti che ho visto. Ma la cosa che me lo rende caro più di ogni altro film di SL sono i titoli iniziali. Niente di trascendentale: un dignitoso isolato di Brooklyn, primi anni Settanta. I grandi giocano a domino, i bambini corrono sui marciapiedi, i ragazzi s'infrattano sotto le scale. L'estate in città, in tutto il suo splendore. In sottofondo gli Stylistics cantano di scioperi dei netturbini e varia umanità – le cose che fanno girare il mondo. Una pezzo soul sui generis, impregnato della luce del mattino, odoroso di donuts alla cannella. In seguito ho cercato in lungo in largo la loro versione di People make the world go round, senza soddisfazione. Ne ho trovato una, pregevole, di Micheal Jackson bambino, ma ora m'intristisce. Poi mi sono reso conto che la canzone mi piace ascoltarla così: col rumore dei bambini che fanno la conta. È anche questo che fa girare il mondo.
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I mean, after all, it's just a road

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Certo che io e te ne abbiamo fatti fuori, di chilometri.
Questi inglesini spariscono al confronto, noi ci siamo svegliati a Modena e coricati a Nevers. Abbiamo parcheggiato sotto il Guggenheim e a Finistère; davanti al museo contemporaneo di Rotterdam il ladro più sfigato del mondo non riuscì a forzarci la portiera. Abbiamo perso una marmitta a Montpellier, ne abbiamo trovata un'altra a Marsiglia, ma per trecento chilometri ci sembrava di sedere su una formula uno. Te lo ricordi l'odore del radiatore che fondeva sotto il Gottardo? E quando a Zandvoort ci tirarono un calcio alla fiancata?

Su e giù per mezza Europa, braccati dalle maledette Audi assassine, scansando gli italiani impalati nella corsia di mezzo e i turisti francesi coi loro perniciosi carrettini. Tutti i tornanti del Moncenisio, tutte le stazioni di servizio da Voghera a Saint Raphael. A Latina, un posto di blocco. La gente non lo sa, che parcheggiare a Parigi in agosto è semplicissimo. Quel tizio a cui ricaricammo la batteria a Monaco di Baviera, non ci voleva credere. Ancora ringrazia gli angeli italiani coi cavi e i morsetti nel baule.

Alla frontiera basca abbandonano le macchine sul ciglio dell'autostrada. Nella valle del Rodano ogni morto in strada è segnalato con una sagoma nera. A volte ci sono famiglie intere di sagome, papà mamma e i bambini. Nei boschi del Lussemburgo ci superò l'arciduca, faceva tipo i duecentoquaranta.

E magari era bella Biarritz, graziosa Treviri, non male Salisburgo. Ma alla fine quelle che più mi restano nel cuore sono le città bruttine. La skyline di Liegi (quanto sei brutta, Liegi), i detour di Fontenay, le fontane di Roanne, l'impossibilità di trovare cibo edibile a Orleans o l'enigmatico centro di Mulhouse. Dopo dieci d'ore d'auto Tarascona mi sembrò Gerusalemme. Ostenda a ferragosto era così triste che passammo il confine per respirare un po', e ci ritrovammo a Dunkerque. Ville fleurie, come tutte quante. A Bruxelles girammo mezza giornata tra una casbah e una specie di ZEN, inseguendo cartelli che dicevano “centro”, prima di capire che era il centro, sì, ma di Anderlecht. Avevo sempre pensato che fosse una squadra di calcio, invece è il gemello siamese cattivo del putto piscione. Perdonami.

Per tutte le chiese gotiche, in fin dei conti identiche, come i tetti dei Buffalo Grill in cui non siamo mai entrati, ma ormai ci facevano sentire a casa. Come i licheni incrostati sui templi bretoni. Come tutte le città di Olanda coi canali e i mulini, i mulini e i canali, che dopo averne apprezzate quattro o cinque cominci a pensare per fortuna che hanno bombardato almeno Rotterdam. Per quella volta che guidai mezza giornata per trovare il museo di Caen, e poi non volli comprare il biglietto. Per tutte le volte che ho trovato una scusa per tornare a Poitiers, e non ci conosco nessuno. Per ogni volta che ho provato a portarti al Mont Saint-Michel e il monastero era sempre chiuso al pubblico, monaci infingardi. Per la scorciatoia del lago d'Idro e la tappa criminale Bordeax-Gignac. Tu però ricordati di Basilea e Saint-Tropez, delle ostriche di Arcachon, e Portovenere. Lo sai come sono fatto, lo sai che mi bastano due parole: Dai, Andiamoci. Il gommista ha dato l'ok. Abbiamo il gpl, abbiamo l'essenza, un mese di playlist, e prima o poi salteranno fuori gli It's Immaterial. Sono il tuo re della strada, non ti piace? Cavaliere della strada, è lo stesso per me, sono qui, al tuo fianco. Voglio dire, in fin dei conti è solo strada. (Poi alla prima manovra in un parcheggio becco una fioriera in retromarcia, duecento euro, m'ammazzerei).
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Save me from tomorrow!

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Fire fu la prima fanzine su cui misi le mani, forse l'unica. Era l'organo del fan club italiano degli U2, che però non uscivano con un disco nuovo ogni tre mesi, maledetti. Per cui Fire doveva rassegnarsi a parlare anche d'altro: film di Wim Wenders e band di area celtica, Waterboys o In Tua Nua.

Su un numero di Fire, in terza di copertina, fu pubblicato il testo di Ship of Fools dei World Party. Mi sembrò subito meraviglioso, un salmo, una piccola apocalisse, e non avevo ancora sentito la musica. Ma poi miracolosamente quell'estate Ship of Fools sbarcò su Videomusic, che mi serbava dell'affetto. A nessun altro per chilometri e chilometri parevano interessare i World Party, che in pratica erano un progetto solista del tastierista gallese dei Waterboys. Nessuno voleva sentire fosche profezie di sventura con arrangiamenti retrò che non erano ancora tornati di moda.


Però per me, vedete, Ship of Fools epitomizzava tutto quello che mi stava succedendo attorno e non si chiamavano ancora “Anni Ottanta”, perché ci eravamo dentro e non avevamo la minima idea di quando sarebbero finiti. Secondo Fukuyama anche mai. Ecco, quegli Anni-non-ancora-Ottanta si riconoscevano dal ritornello, che era “you're going to pay tomorrow”. Potevamo accomodarci, spendere e spandere, avremmo pagato con calma in seguito. Ma dopo quel ritornello nella canzone ce n'era un altro, più dolente, e mi sembrava di sentire la mia stessa voce mentre Wallinger lo cantava: Save me from tomorrow! Io non c'entro! Non è colpa mia! Non voglio salpare con la nave dei folli! Ma non c'era niente da fare, avevamo già tagliato gli ormeggi da un pezzo.
Dopo quel disco Wallinger si concentrò su una sconosciuta cantante irlandese che aveva il vezzo di esibirsi calva, Sinead Qualcosa. Ma nel giro di pochi mesi comunque ascoltare rock celtico smise di essere trendy, e io passai ad altre cose che francamente adesso non so. I World Party ricomparvero sul mio radar tantissimi anni dopo con un altro pezzo struggente e fuori moda, Is it like today. Poi basta, per quel che ne sapevo Wallinger poteva anche aver preso una pompa di benzina fuori Cardiff.

Scopro invece che ha fatto di tutto, compreso le colonne sonore di Giovani Carini e Disoccupati e Ragazze a Beverly Hills. E che She's the one, l'insulsa ballatona di Robbie Williams pattinatore, è un pezzo dei World Party. Dannata internet. Preferivo non saperle, queste cose, e immaginarti seduto sul molo, a guardarci mentre naufraghiamo, senza fretta. 

E invece, per tutti questi anni, anche tu, nascosto nella stiva.
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Per difendere un'effige

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A questo punto si è ormai capito che per me, ex ragazzo triste, l'estate è una grande metafora della solitudine: tappato in casa o in giro per il mondo, io in estate devo forzatamente crogiolarmi in me stesso per estenuanti pomeriggi, ascoltando pezzi astrusi che mettano in fuga pure gli animali da cortile. Può darsi, anche se in realtà ero quasi sempre in campeggio a schitarrare. Comunque. Questa specifica varietà di solitudine è seriamente minacciata dall'ascesa di Youtube. Fate l'esperimento. Cercate quella canzone di cui avete pudore, perché siete convinti che ormai piaccia soltanto a voi. Quella che nessuno sembra ricordare. Su youtube molto spesso c'è. E sotto il video ci sono sempre almeno tre commenti. Di gente entusiasta.

E' una cosa commovente, la coda lunga che scodinzola. Non c'è un solo lurido accrocchio di note dissonanti che non abbia un suo estimatore, qualcuno che l'aveva cercato in lungo e in largo e piange di felicità per averlo finalmente trovato. E agli artisti si perdona tutto. Qui sotto c'è Rino Gaetano, (no, non è Sfiorivano le viole, fuochino) che uccide la sua stessa canzone con un playback criminale. Lo hanno abbandonato sul palcoscenico come un cane in autostrada; si protegge con un cappello e una coreografia stentata, e sembra aspettare che lo vengano a prendere, come gli strumenti che qualcuno ha lasciato lì sullo sfondo. Beh, nei commenti la gente applaude la sua pantomima, lo trova geniale 'come al solito', lo ringrazia per aver "rifiutato il playback". No, non è che lo rifiutasse. Non era capace (o aveva un ritardo in spia, possibile anche questo). Ma non importa, è da anni che sognavamo di vedere Rino che cantava le canzone. Finalmente l'abbiamo trovato. Non canta. Si muove a stento. Ma è Rino. Siamo un po' meno soli.

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Va sempre a finire così, che ci si assomiglia

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È agosto, quindi non abbandonate i cani in autostrada.



Tappatevi in casa con loro.
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Io mi ritrovo quasi sperso

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Come distinguere i falsi ricordi dai veri? Questi ultimi portano sempre una forte componente d'imbarazzo. Avrò avuto dodici anni e a casa dei miei cugini avevo scoperto un canale tv che mostrava soltanto canzoni. Cioè, ogni canzone aveva un suo filmato diverso, e tra una canzone e l'altra non c'era niente, né conduttori stupidi né pubblicità stupida, niente. Solo canzoni, di giorno e di notte, il paradiso.

C'era il problema che erano in inglese. Gli unici italiani avvistati erano Pino Daniele, ma pareva cantasse in inglese pure lui, Yessaino, maùei, qualcosa del genere, e poi questo marziano spiaggiato nel deserto australiano, che voleva dissolversi nell'universo, e lo cantava in un pericoloso falsetto che qualche anno dopo nessuno gli avrebbe più perdonato. Non è che mi piacesse, però con gli anni il ricordo inspiegabilmente non sbiadiva. A quel tempo non c'erano vhs né programmi nostalgici, ogni video che guardavi poteva sparire da un momento all'altro e non tornare più.

Così è per quel video di Mango, non lo trova nessuno. Persino la canzone io non ebbi più occasione di ascoltarla, per più di dieci anni. Al massimo qualche "radio solo musica italiana", intercettata in clandestinità, poteva restituirmi Oro, che sembrava arrangiata con gli scarti di Peter Gabriel. Ma Australia era scomparsa, nessuno sembrava averne mai sentito parlare.

Finché un pomeriggio di una sudatissima estate universitaria non trottai con molta circospezione in un videonoleggio equivoco, e trattenendo il fiato mostrai al cassiere la custodia del Meglio di Mango. Ma non fui sicuro di non essermi sognato tutto finché premendo play non ascoltai quella batteria sintetica, quei gabbiani sintetici, quel falsetto criminale che alza le vele e senza alcun pudore prende il largo, nell'universo. Voi potete ridere di Pino Mango e di me, ma Australia non me la dovete toccare, Australia è resistita in un angolo del mio cervello a cantare sommessamente per più di una dozzina di estati, senza che nessuno la innaffiasse. Australia è la canzone di ogni estate dell'umanità, un dono che i demoni meridiani fecero a Pino Mango, in circostanze che non ho alcun interesse ad approfondire. Il vento è come un gran respiro che va e spazza via confini e città, entra in me e così io mi ritrovo quasi sperso nell'universo, oh. Senza passato, più leggero, io mi risento ancora puro, oh, nell'universo oh oh oh, mentre la luce piano sale alzo le veeeeeeeeeeeele, alzo le veeeeeeeele (la senti una chitarra nel sottoscala che strangola il gabbiano sintetico?) Paragonarla non si può.
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The coldness of the summernights

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Un altro tipo di canzone estiva è quello "che già al primo ascolto suona come se lo avessi sentito uscire in continuazione da una radio sempre accesa in quella stanza d'ostello, in inter-rail a Londra, una dozzina di estati fa", (c) Enzo.



Non c'è nulla che fa più anni '90 di un remix di un pezzo del '72 di Donna Hightower. Abbiamo scoperto il remix anticato. Significa che abbiamo trovato la formula per falsificare la nostalgia. Significa che non ci fregheranno più, a meno che non vogliamo fregarci da soli (significa che d'ora in poi dovremo fregarci da soli).
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Suppose I should hate it so

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(Mi bastano i primi dieci secondi e sono di nuovo lassù, santamargherita terzo piano, seduto su un'ustione da turista della domenica, a tradurre cartelle alla disperata, deve sembrare tutto finito entro il trenta luglio, ché il primo agosto forse mi fanno un contratto. Davanti al ventilatore una bottiglia di ghiaccio. Il passato sciocco che mi tocca rimpiangere).
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Get ready, 'cause here I come

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La storia l'ho già raccontata in due righe su Polaroid, ma è buffa, la riciclo.
Io dunque quattro anni fa mi trovavo a New Haven, Connecticut, travestito da studente. Non un granché come copertura, ma facevo del mio meglio per tenere la mia italianità sotto i livelli di guardia, e se provai a prepararmi un ragù con carne macinata agli estrogeni, ciò rimase confinato nel mio cucinino di woodland street, ingombrato da un frigorifero enorme che sparava aria fredda sui piedi.

Poi un giorno, stavo attraversando il grande prato centrale - su un lato stavano già montando il palco per i Temptations, ci sarebbe stato di lì a poco un concerto gratis dei Temptations! - lo stavo attraversando in linea retta, quando mi ritrovai in mezzo a una partita di calcetto. A New Haven, tanto tanto lontano dalla casetta mia. Mi fermai a guardarli, perché insomma, uno non sa cosa aspettarsi da  americani che giocano a calcetto, chissà se sanno toccare palla (e invece magari al college hanno fatto un seminario sul dribbling). E una ragazza in tuta che si era accorta che mi ero fermato, mi disse: wanna play? Qualcosa del genere.

Una voce nella mia testa mi diceva vacci piano, è tipo dieci anni che non tocchi palla neanche tu. E gli americani saranno anche scarsi a soccer, ma le americane hanno vinto già due coppe del mondo. Ma era solo un bisbiglio nella mia testa. Il resto della mia testa stava gridando all'unisono po, po po po po po, po. Io sono il campione del mondo. Io sono venuto tra voi nordamericani ignoranti a insegnarvi il bel giuoco. Aspettate solo un attimo che poso lo zainetto.

Quand'ero piccolo mi ritenevo in grado di giocare nel cortile della scuola, prima della campana. Siccome nessuno mi aveva mai invitato, la mia unica possibilità era lottare su tutti i palloni, tutti. Non avevo un attaccante da marcare io, io marcavo il pallone. L'unica cosa che so fare.

Il problema è che non ero uno più uno studente: quella era solo una copertura: avevo la maglietta, il laptop nello zainetto, i calzoncini, ma a guardarmi bene si vedevano i capelli bianchi, e il fiato era quello di un trentaqualcosenne, sicché dopo quattro epici minuti di gioco, io morii. Più o meno. Ebbi giusto il fiato di salutare e ringraziare, cedetti il mio posto a un nigeriano (cominciava a formarsi una fila), e mi accasciai, me lo ricordo benissimo, praticamente sotto il pennone della bandiera, pensando guarda te se mi tocca morire sotto le stelle e le strisce. Passò un aeroplano, mi sembrò che andasse a est. Ciao aeroplano, gli dissi, salutami la mamma europa, io mi sa che resto qui. Sul green di New Haven. Per aver voluto giocare a pallone, alla mia veneranda età.

Due sere dopo, sullo stesso green, arrivarono i Temptations. Un quartetto di simpatici signori dell'età di mio padre. Mi aspettavo una cosa piuttosto malinconica. Ma la malinconia non sanno neanche cos'è, i Temptations. Ballarono per tre ore, in perfetta sincronia. Mentre ballavano cantavano, non sbagliarono niente. Sudavano e cantavano, tra un pezzo e l'altro intrattenevano. Professionali, carismatici, energetici, quattro atleti di sessant'anni. Io ne avevo la metà, e su quel prato ero morto dopo aver inseguito per tre minuti un pallone.

Su Youtube i video recenti dei Temptations non rendono loro onore. Sembrano davvero una congrega di vecchietti, garantisco che quella sera non furono così. I Temptations. Che rocce. Su gente così non cresce il muschio.
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Il Successo dell'estate

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Non sono le canzoni più belle, o le meglio riuscite. Le canzoni dell'estate sono un concetto a parte.
Devono sentire di sudore e lasciar intendere in sottofondo il ronzio di un ventilatore inutile. Devono avere anni e mostrarli tutti: con quell'aria di relitto, di nastroteca di radio da provincia, lasciata accesa tutta la notte a spargere polvere nell'etere, finché a un certo punto non salta fuori la canzone esatta, quella che armonizza con la nota delle cicale. La canzone dell'estate non è quella che ti tiene compagnia quando sono tutti andati via. La canzone dell'estate ti deve far sentire ancora più solo al mondo, perché questo è il senso dell'estate, il suo Successo.



Il video però è un po' stupido.
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With marmite she runs

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(Nell'agosto 2010 questo blog diventa un juke box pigro).



(Il video adesso si vede forse qui)

Degli Stranglers si mormorava che fossero stati punk per pura convenienza: in realtà sapevano suonare, anche se per sopravvivere ai pogrom del '77 avevano messo giacche di pelle e stracciato gli spartiti. Forse avevano un passato da far dimenticare, in qualche torrida colonia, come ai britannici succede. Forse Golden Brown è tutto quello che si è salvato dal rogo degli archivi, la testimonianza di un'epoca musicale che è stata rimossa, in cui le fanciulle correvano con la salsa marmite, i gruppi rock vestivano da damerini e scrivevano zoppicanti valzer per clavicembalo. La ripescarono nel 1981 e salvarono il contratto con la major. Poi ripartirono per qualche altrove d'oro brunito. Di loro non resta che il riverbero.
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